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Libertà per la storia
Un appello contro il reato di negazionismo

«La storia non è una religione»: lo storico non accetta alcun dogma. «La storia non è la morale»: lo storico non premia né condanna, ma spiega. «La storia non è un oggetto giuridico»: in uno Stato libero, definire la verità storica non appartiene a un Parlamento né a un tribunale. Altrettanti princìpi enunciati da alcuni fra i maggiori storici francesi, nel 2005, in un appello che ha fatto epoca, Liberté pour l’Histoire. Oggi, dall’Italia, noi ci uniamo a loro nel chiedere: libertà per la storia.
Come cittadini e come storici, ci schieriamo contro una legge – in discussione e approvazione in questi giorni al Senato – che vuole punire con la reclusione da uno a cinque anni chiunque nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità.
Siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna.
Affrontare la questione del negazionismo sull’onda emotiva suscitata dagli avvenimenti di questi giorni rischia di non porre attenzione alle conseguenze che questa legge potrebbe avere se fosse applicata davvero. Nei paesi in cui sono state utilizzate, le leggi antinegazioniste hanno offerto – attraverso la copertura mediatica dei processi cui hanno dato luogo – una tribuna per la propaganda di tesi ignobili altrimenti completamente ignorate dall’opinione pubblica: perché cadere in questo tranello?
La strada della verità storica di Stato, che è propria dei regimi totalitari, non ci sembra utile per far crescere coscienza e consapevolezza dei crimini del passato, ma rischia di trasformare in paladini della libertà d’espressione coloro che osano pronunciare giudizi contrari non solo alla verità storica ampiamente acclarata ma allo stesso buon senso.
Questa legge è innanzitutto ambigua, di difficile interpretazione e di ancor più difficile attuazione. Spetterà in questo modo al giudice decidere se vi è stata una negazione di qualche genocidio o crimine di guerra e contro l’umanità; e spetterà quindi a lui stabilire quali siano i massacri che corrispondono a queste categorie. Su quale base? Sulle decisioni di un tribunale internazionale già passate in giudicato, ad esempio a Norimberga, nei tribunali per il Rwanda e l’ex Jugoslavia, nella Corte penale internazionale? O anche in tribunali nazionali (per i quali, ad esempio, è genocidio quello commesso dai militari argentini in Argentina ma non quello commesso dai Khmer rossi in Cambogia)? Ancora più difficile, e pericoloso, è il discorso per quanto riguarda i crimini di guerra, sia rispetto al passato sia rispetto al presente (si pensi ad esempio alla diversa e opposta valutazione fatta da organismi internazionali – commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite – sull’invasione israeliana di Gaza o sull’uso dei gas in Siria).
Non potremmo invitare a parlare in Italia giuristi che ritengono che quello di Srebrenica non è stato un genocidio, dovremmo espungere dalla biblioteche i libri che non accettano di usare genocidio per il massacro degli armeni. Ma dovremmo anche mandare in prigione giovani (e meno giovani) ignoranti che ripetono giudizi demenziali su fatti di cui non sanno e non capiscono nulla. Se il loro obiettivo è quello di istigare alla violenza, di fomentare il razzismo, di creare un clima di odio etnico o religioso o di denigrare le vittime, le leggi per impedirlo, per scoraggiarli ed eventualmente per punirli ci sono già.
Siamo sicuri che siano necessarie nuove leggi, che rischiano di mettere in discussione libertà di espressione, libertà di ricerca, dibattito critico (studiosi di tutto il mondo, giuristi, storici, antropologi, continuano a discutere su quale sia la giusta definizione di genocidio senza trovare una risposta condivisa), perché non si riescono ad applicare quelle che già esistono e che, colpendo l’incitazione all’odio e l’apologia del razzismo, contengono già gli strumenti per sanzionare chi utilizza il negazionismo con questa finalità? Pensiamo davvero sia utile sostituire il codice penale ai manuali di storia?
Se non si è riusciti in questi ultimi anni a far qualcosa per debellare il negazionismo non è stato per una carenza legislativa: ma perché le leggi esistenti non vengono applicate (e nessuno garantisce che in questo caso ciò avvenga) e perché non si è voluta prendere nessuna iniziativa forte e importante – di carattere educativo, culturale, sociale – che avrebbe potuto aiutare contro il negazionismo.
Fare una legge crea la perversa convinzione che il problema sia risolto, e quindi possa essere accantonato e rimosso. Mentre occorrerebbe una incisiva campagna educativa, nelle scuole e nei mezzi di comunicazioni di massa, chiamando a partecipare l’intera società. Il razzismo si sconfigge con l’educazione, la cultura e la ricerca; le manifestazioni di odio e apologia di razzismo con le leggi che già esistono. È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno isolare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.

Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Sergio Luzzatto, Enzo Traverso, David Bidussa, Gustavo Corni, Alberto De Bernardi, Tommaso Detti, Maria Ferretti, Umberto Gentiloni, Giovanni Gozzini, Andrea Graziosi, Mario Isnenghi, Fabio Levi, Giovanni Levi, Claudio Pavone, Paolo Pezzino, Gabriele Ranzato, Raffaele Romanelli, Federico Romero, Mariuccia Salvati, Arnaldo Testi, Stuart Woolf, Walter Barberis.