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Abstracts della rivista

Abstract del numero 213, dicembre 1998
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  • Massimo Legnani La guerra totale. Per un'indagine su progetto e realtà della guerra fascista pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: Sul tema della sproporzione tra quanto il regime fascista, di fronte alla guerra, progettò e quanto realizzò, alcuni studiosi dubitano che alle spalle dei piani di mobilitazione vi siano state scelte ben maturate, mentre De Felice, ribadendo che il regime (data l’inconsistenza dell’opposizione interna) poteva crollare solo per un fattore esterno e questo fu la sconfitta militare, nega che per la dittatura la guerra costituisse un impegno coerente con la sua natura e il suo sviluppo. L’autore invece ritiene che far risalire le ragioni di quella sproporzione alla pochezza dei mezzi che l’Italia era in grado di mettere in campo sia insoddisfacente e che occorra piuttosto indagare con attenzione sulla contraddizione in cui, dalla metà degli anni trenta, si trova stretto il regime: il coacervo di interessi che deve sostenerne l’imperialismo è lo stesso che è destinato ad essere riplasmato dagli effetti della sua azione internazionale. Solo saldando in un unico intreccio primato della politica estera e guerra parallela (vista dall’autore come incapacità per il fascismo di modellare la propria strategia al di fuori di una logica di subalternità alla Germania) è possibile precisare il terreno su cui analizzare forme e gradi della mobilitazione bellica. Dopo aver richiamato i vincoli all’interno dei quali il regime realizzò la prima fase di essa, l’autore passa ad analizzare quelli che pesarono sulla seconda, a partire dalla metà del 1941: innanzitutto la grave frantumazione dei percorsi decisionali rispetto ai nodi della produzione bellica, della finanza pubblica, della politica alimentare. (p.r.)


  • Massimo Legnani Società in guerra e forme della mobilitazione. Stato degli studi e orientamenti di ricerca sull'Italia pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: L’autore prende in considerazione le diverse interpretazioni delle forme di mobilitazione del paese in guerra date da vari studiosi (da Minniti a De Felice, a Rasi, a Perfetti; da MacGregor Knox, a Di Nolfo, a Rochat), individuandone la polarizzazione in relazione al tema dell’imperialismo fascista e dei reciproci e più stretti vincoli che si vengono a stabilire tra politica estera e interna nel corso degli anni trenta. Sia coloro che leggono questa correlazione come espressione di empirici parallelismi (in particolare De Felice) sia coloro che invece in essa scorgono un’organica complementarietà (in particolare Knox) sono tuttavia accomunati dal limite di considerare i comportamenti di Mussolini come quelli di un protagonista assoluto, ponendo in secondo piano ogni altro agente. Allo scopo di collocare l’operato di Mussolini in un contesto più ampio, l’autore ritiene fondamentale approfondire la questione di che cosa abbia comportato la preparazione della guerra per la società e l’economia italiana, per il blocco di potere che in essa si aggrega e per il controllo/repressione che il regime esercita sulla società, riformulando la correlazione tra il ciclo 1936-1941 (riconsiderato unitariamente) e il periodo della guerra aperta. Dopo aver fornito alcuni spunti di analisi sulla morfologia e gli effetti della mobilitazione in questo quadro, l’autore discute la natura dei provvedimenti presi dal regime a ridosso dell’intervento e quelli successivi all’estate del 1941, i cui caratteri "sotto tono" vanno letti non come frutto di autolimitazione ma come intrinseci alla macchina da guerra fascista. Ciò a causa sia dell’eclissi, nel passaggio dalla "guerra breve" alla "guerra lunga", dell’imperialismo "parassitario" fascista sia dell’incompatibilità tra mobilitazione "in profondità" e sistema di alleanze su cui il fascismo si regge. (p.r.)


  • Massimo Legnani Potere, società ed economia nel territorio della Rsi pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: L’articolo discute due nodi storiografici fondamentali per la comprensione della vicenda della Rsi e degli interessi politici, economici e sociali che in essa si manifestano: la natura del conflitto tra "estremisti" e "moderati" e i caratteri della legge sulla socializzazione delle imprese del febbraio 1944. La contesa tra "estremisti" e "moderati" contraddistingue sia la fase di impianto del potere della Rsi sia quella successiva ed è l’espressione (in un contesto, fortemente condizionato dalla presenza tedesca, che non è più di spartizione del potere come nel Ventennio, ma di conquista) non del rapporto contraddittorio tra partito e Stato, ma di un ‘regolamento di conti’ all’interno dello stesso Pfr. Ciò si traduce, per la presenza di polizie parallele e i violenti scontri ad essa connessi, in una fortissima riduzione delle capacità operative della Repubblica di Salò. Dopo aver analizzato le diverse forme e gli esiti di questa contesa a livello locale e l’incapacità del centro di governarla, l’autore passa a considerare sommariamente l’evoluzione della situazione economica. Dal 1943 al 1945 si aggravano tutti i fenomeni negativi già ampiamente presenti dall’autunno 1942, cui si aggiungono i forti prelievi tedeschi e il reclutamento coatto. In questo quadro il progetto di socializzazione viene presentato come ripresa e svolgimento di quello corporativo nella tutela però del diritto di proprietà. L’idea che ne sta alla base (contrastata praticamente all’interno del Pfr da alcuni più accesi sindacalisti) è di far centro sulla conservazione della struttura produttiva e nel contempo dar spazio a una riorganizzazione tecnocratica del governo dell’economia. Essa non può che trovare concordi gli esponenti dell’industria e apre una prospettiva di riorganizzazione del corpo sociale che va ben oltre la congiuntura bellica e Salò. (p.r.)


  • Massimo Legnani La storiografia della Resistenza ieri e oggi pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: L’articolo ripercorre l’evoluzione della storiografia della Resistenza tenendo presente l’intreccio con la politica che la ha sempre caratterizzata e che, pur segnando gli studi di Catalano e Battaglia e la prima ondata di memorialistica partigiana, non impedisce alla storiografia degli anni cinquanta di affrontare questioni fondamentali come l’equivalenza Resistenza-Risorgimento e la ‘continuità’ dello Stato. Nel decennio successivo, anche su impulso dei fatti del luglio 1960, la Resistenza entra nella memoria ufficiale. Tuttavia, i movimenti giovanili, a partire dal Sessantotto, con la denuncia della Resistenza tradita in particolare dalla sinistra che non avrebbe raccolto la volontà di rivolgimento sociale insita nella lotta partigiana, aprono una stagione feconda di monografie locali, caratterizzate anche dall’esigenza di circostanziare il carattere “dal basso” del movimento partigiano. Raccogliendo e rielaborando i frutti di questi studi, e di quelli coevi sulla transizione dal fascismo alla repubblica, Quazza scrive Resistenza e storia d’Italia che restituisce al movimento partigiano la ricchezza dei suoi contenuti e ne chiarisce l’impatto con le permanenze nelle gerarchie sociali e nel rapporto Stato/cittadini che condizioneranno la vita dell’Italia repubblicana. Negli anni ottanta, la cultura antifascista e la storiografia della Resistenza forniscono una risposta debole all’affermarsi di una visione pacificata della dittatura, reinserita a pieno titolo nella linea maestra della vicenda nazionale. Tuttavia il dibattito si arricchisce di due nuclei problematici, che in parte si integrano e rimandano l’uno all’altro e che promettono interessanti sviluppi: quello della scelta, riproposto da Quazza come categoria pregiudiziale per valutare la portata storica della guerra partigiana, e quello della guerra civile, rivisitato da Pavone che lo sottrae agli usi pretestuosi della pubblicistica neofascista. (p.r.)


  • Massimo Legnani Crisi e vitalià di un paradigma 1986-1994 pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: Il cinquantesimo della liberazione non può configurarsi come una scontata ricorrenza anniversaria — questa la tesi dell’autore, che auspica un forte investimento di risorse, culturali e materiali, perché le ricerche sulla Resistenza possano puntualizzarsi e consolidarsi. Ciò risulta improrogabile se si intende ripercorrere l’intero cinquantennio in una contingenza che registra in ambito politico la vittoria del Polo alle elezioni del 1994, e in ambito scientifico il consolidarsi del revisionismo defeliciano, che ha proposto una lettura dell’antifascismo e della Resistenza troppo strumentali al presente. La lettura di De Felice ritrova nella frantumazione politica e ideologica resistenziale e nella politica lottizzatrice del Cln l’anticipazione di mezzo secolo di storia della repubblica; accusa il Pci di essere stato, durante la Resistenza e dopo la liberazione, il protagonista di un opportunismo machiavellico per l’elasticità con cui si mostrava ossequioso alle regole democratiche, mentre teneva in vita un apparato militare pronto a cogliere ogni opportunità sovversiva. L’autore replica richiamando a una più puntuale contestualizzazione del fatto storico. Ciò ha contraddistinto molte ricerche, che hanno messo a fuoco questioni di grande spessore storiografico, quali: i lavori dei vari Istituti della Resistenza che negli anni settanta hanno privilegiato i rapporti fra Resistenza e storia locale; quelli di Guido Quazza negli anni ottanta, che hanno messo a fuoco la cifra esistenziale, e non solo politica, dell’antifascismo; quelli di Claudio Pavone negli anni novanta, che ha considerato la Resistenza come la somma di “tre guerre” (nazionale, civile, di classe). Ciò a sostegno di una complessità dell’evento resistenziale sul quale anche la cultura comunista e molti storici della sinistra sono stati latitanti, lasciando spazio alle tesi revisionistiche. L’evento celebrativo dovrebbe richiamare le istituzioni ad attuare una politica culturale tesa a incentivare e a valorizzare la ricerca in questo settore, piuttosto che accontentarsi di magniloquenti affermazioni di principio, sterili nei contenuti e nei risultati. (m.z.)


  • Massimo Legnani Resistenza e repubblica. Un dibattito ininterrotto pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: L’articolo, scritto per un pubblico spagnolo, è una rassegna critica del dibattito storiografico sulla transizione dal fascismo alla repubblica, fondata sull’ipotesi di una stretta connessione tra le sue varie fasi e quelle via via determinatasi nella situazione politica del paese, a partire dagli anni a ridosso degli avvenimenti fino ai novanta. Dopo aver ripercorso sinteticamente l’itinerario attraverso cui prende corpo il regime repubblicano negli anni 1943-1947, conclusosi con la rottura della coalizione antifascista, l’autore mette in evidenza come le diverse visioni della Resistenza e della nascita della repubblica degli studiosi cimentatisi col tema già nei primi anni cinquanta aderiscano ai termini molto aspri della lotta politica e valgano innanzitutto come conferma delle scelte compiute da ciascun partito. Dalla fine degli anni sessanta ha luogo invece un profondo rinnovamento degli studi. Si definisce un’area di dibattito strutturata sugli incroci tra i rivolgimenti politici (dall’Italia liberale, a quella fascista, a quella repubblicana) e le persistenze ravvisabili a livello di aggregazioni economiche, gerarchie sociali, apparati pubblici. Su questo sfondo si inserisce anche l’opera Resistenza e storia d’Italia di Quazza. Il confronto sull’asse continuità/rottura si esaurisce negli anni ottanta: la storiografia sulla Resistenza si inoltra in analisi interne al movimento (di cui è esemplare l’opera di Pavone sulla “moralità della Resistenza”). Il dibattito sulle “origini” torna di attualità con lo scontro culturale e politico connesso alla cosidetta crisi della prima repubblica. La critica ora è rivolta a contestare la legittimità dei rivolgimenti simboleggiati dall’avvento della repubblica, postulando un rapporto di filiazione tra sbocco della transizione degli anni quaranta e crisi del sistema politico dei novanta. (p.r.)


  • Massimo Legnani Appunti sulle relazioni tra storiografia e romanzo pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: Nell’articolo, un intervento nel dibattito sulla questione del rapporto tra storiografia e romanzo, riapertasi anche in Italia in relazione tra l’altro alla diffusione e al successo di pubblico delle biografie storiche, l’autore propone la necessità di una riflessione sia su alcune posizione espresse sulla questione già nell’Ottocento sia sulle risultanze del dibattito su natura e destini del romanzo che ha preso il via negli anni venti. Dalla cultura preromantica e romantica, in cui la storia viene vista come sede del pubblico e il romanzo come sede del privato, si passa a quella diversificata della seconda metà dell’Ottocento, in cui a Legnani pare di grande rilievo la posizione di autori come James che vede, da un lato, nella totalità storica il fine della rappresentazione e, dall’altro, l’esperienza come “l’atmosfera stessa della mente”. Negli anni venti e trenta, a partire dalla constatazione condivisa che le forme ottocentesche si sono dissolte, si apre un dibattito sui caratteri e sulla sorte del romanzo: alle posizioni di rifiuto di ogni ancoraggio al tempo storico e alla sostanziale identificazione di realtà e personaggio, proprie della cultura anglosassone, si affiancano quelle di autori come Ortega y Gasset, fiducioso nella possibilità di rinnovamento di storiografia e romanzo in un fecondo rapporto con la psicologia. In campo marxista, alla visione del romanzo come epopea borghese di Lukács si contrappone quella di Bachtin, per il quale la questione del rapporto tra le due aree si definisce come problema del rapporto tra romanzo, realtà socioeconomiche, altre sfere ideologiche. L’autore, abbracciando la visione bachtiniana del romanzo come interprete della trasformazione e dell’ideologia in formazione, conclude chiedendosi che cosa significhi nella storia degli intellettuali e in quella sociale complessiva del nostro paese l’incertezza e la discontinuità della presenza del genere romanzo. (p.r.)


  • Massimo Legnani "L'introvabile romanzo". Proposta di discussione su alcuni aspetti della cultura italiana tra Otto e Novecento pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: Nei passaggi nevralgici del dibattito sul romanzo (tra Otto e Novecento, nel periodo postrealista) esiste la convinzione che la rappresentazione romanzesca raggiunga un livello di resa della realtà molto superiore a quella storiografica. Ciò trova riscontro nelle grandi letterature europee ma non in quella italiana. Per spiegare i motivi di questa anomalia l’autore ripercorre un secolo e mezzo di storia della cultura italiana, nella convinzione che le intermittenze e gli sviluppi della questione del romanzo nel nostro paese portino direttamente a quella degli intellettuali, come contesto indissociabile dal dibattito e dai problemi interni al genere. Dalla crescente sfiducia nelle capacità del romanzo di interpretare la realtà storica presente negli scritti di teoria letteraria di Manzoni (rappresentativo di una situazione nazionale in anni in cui sembra dissolversi il rapporto di necessità tra destini privati e collettivi), nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento si giunge, attraverso il rilancio segnato di pessimismo dei veristi, all’abdicazione alla centralità del romanzo e al suo uso strumentale, cui si contrappone solo parzialmente la ripresa degli anni venti, contraddistinta da oscillazioni tra la volontà di riappropriarsi dei valori della costruzione e il rifiuto della rappresentazione sancito dalla letteratura del frammento. A questa vicenda fa riscontro quella degli intellettuali — in Italia coincidente largamente con quella dei letterati, affratellati dal pregiudizio a favore dei generi alti e dalla convinzione che il poeta è il più alto depositario della tradizione letteraria che è nervatura dello spirito nazionale, e caparbi sostenitori di una concezione della pratica letteraria come “non integrazione” —: essi passano dalla deprecatio temporum postrisorgimentale alla sconfessione brutale della condizione politica e sociale del paese e alla dissociazione da essa fino a prefigurare come possibile la costruzione di un loro partito. (p.r.)


  • Massimo Legnani Riflessioni su storiografia e romanzo in prospettiva novecentesca pubblicato sul numero 213 di Italia contemporanea, dicembre 1998 Abstract: La discussione che si è sviluppata sul revival della storia narrativa può scuotere la reciproca indifferenza tra storiografia e romanzo, instauratasi in seguito a processi interpretati come divergenti, iniziati con l’eclissi del romanzo di ascendenza ottocentesca e l’affermarsi della storiografia come analisi delle strutture del passato? Per rispondere alla domanda l’autore analizza il dibattito, maturato tra gli storici dagli anni cinquanta, su storiografia e romanzo (e in particolare sul rapporto tra storia narrativa e romanzo, sulle implicazioni teoriche del ricorso al romanzo come fonte per la storia o sul romanzo come unica storia possibile), in seguito all’esaurirsi di esperienze come quelle delle “Annales” e della storiografia marxista, da cui emerge, a suo avviso, la palese riluttanza a misurarsi con la costruzione romanzesca nella sua interezza. Egli passa perciò sinteticamente in rassegna alcune delle principali riflessioni dei teorici del romanzo a partire dagli anni venti e trenta per concludere che le evoluzioni del genere sono leggibili solo all’interno di un percorso di storia della cultura in cui vengano connesse alla caduta di fede nella scientificità e nell’efficacia politica della letteratura. Una sfiducia che è anche alla base del più recente accentuarsi, nella storiografia, dell’impianto narrativo, visto come adesione alla supposta singolarità e dunque irripetibilità di ogni accadimento storico. La categoria della dicotomia tra tempo esterno e tempo interno, pur essendo un buon punto di partenza, è dunque troppo rozza per guidare alla comprensione della rottura nei rapporti tra le due aree e perciò a un suo possibile superamento. Gli storici dovrebbero perciò reimpostare il problema e, avvalendosi dei contributi provenienti da altri studiosi (teorici della letteratura, filosofi, linguisti), porsi il quesito “di che cosa fabbrichi lo storico quando diventa scrittore”. (p.r.)

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