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Abstracts della rivista

Abstract del numero 251, giugno 2008
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  • Tommaso Nencioni, Giaime Pala I comunisti spagnoli e il Sessantotto cecoslovacco. Tra fedeltà sovietica ed eurocomunismo pubblicato sul numero 251 di Italia contemporanea, giugno 2008 Abstract: Il 21 agosto del 1968 facevano il loro ingresso in terra cecoslovacca le truppe del Patto di Varsavia, con l’intento di porre fine all’esperimento di rinnovamento del governo socialista di quel paese passato alla storia con il nome di Primavera di Praga. Il Partito comunista spagnolo (Pce) prese le distanze dall’iniziativa sovietica, disapprovando, per la prima volta nella storia, un’azione politica avviata dall’Urss. La decisione, presa da un ristretto numero di dirigenti del comunismo spagnolo, era destinata a lasciare tracce durature — nel bene e nel male. Particolarmente significativa fu la situazione determinatasi in Catalogna. La base del partito non si mostrò disposta a seguire i propri leader in un atteggiamento da molti giudicato antisovietico, cioè contrario agli interessi del paese del socialismo realizzato che tanto aveva aiutato il popolo spagnolo nella guerra civile e nell’esilio. L’opposizione diffusa al nuovo corso intrapreso dal segretario generale, Santiago Carrillo, con l’appoggio del gruppo dirigente del partito in Catalogna (Psuc), non trovò nessun dirigente capace di convogliarla in un progetto scissionistico con appoggio di massa; tuttavia essa creò notevoli difficoltà in un partito già impegnato in una lunga lotta clandestina. D’altro canto, un gruppo di intellettuali comunisti riuniti intorno alla rivista "Nous Horitzons" entrava in polemica con la Direzione esiliata a Parigi, accusandola di eccessiva timidezza nelle critiche all’Unione Sovietica. La quale, a sua volta, specialmente a partire dalla Conferenza di Mosca dei partiti comunisti del 1969, non perse occasione per attaccare Santiago Carrillo e, col tempo, l’intero Pce. Tuttavia il fronte comune che vide combattere fianco a fianco in quel periodo Pce, Pci e Pcf dette i suoi frutti durante gli anni seguenti, sfociando nel progetto "eurocomunista". Da allora in poi sarebbe stato impossibile escludere i comunisti da qualsiasi progetto basato su di un ampio consenso di transizione alla democrazia in Spagna.


  • Nicola Labanca Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani. Il generale e il particolare pubblicato sul numero 251 di Italia contemporanea, giugno 2008 Abstract: Il 30 agosto 2008 il presidente del Consiglio della Repubblica italiana, cavalier Silvio Berlusconi, e il qa‘id della Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, colonnello Gheddafi, hanno firmato un Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione. L’evento ha fatto il giro del mondo. Si tratta di un accordo che vuole porre fine al contenzioso italo- libico sul passato coloniale. Poiché il documento ha anche importanti aspetti economici e politici, la dimensione culturale ha una sua autonomia e un suo peso? Il saggio parte dalla considerazione che l’evento ha avuto una sua inusuale risonanza internazionale, anche se è difficilmente comprensibile senza tenere conto delle implicazioni di politica nazionale su ambedue i versanti, e in ogni caso su quello italiano. Analizza quindi la versione resa disponibile dell’accordo e si chiede se, in un testo che si pone l’obiettivo di superare il passato coloniale, l’Italia vi ammetta esplicitamente la sua pesantezza o se invece abbia preferito la via della genericità. A tale proposito, brevemente, sulla base della letteratura disponibile, il saggio enumera i principali atti del passato coloniale per i quali si è parlato di crimini, anche se suggerisce che, discutendo del colonialismo, non convenga soffermarsi solo su eventi drammatici ma straordinari, cosa che farebbe perdere di vista — arrestandosi ai soli atti inumani o genocidi — la pesantezza della dimensione quotidiana del dominio coloniale. Assumere compiutamente il passato coloniale aiuterebbe peraltro gli italiani della Repubblica a superare una fase caratterizzata da un triplice silenzio, che rappresenta una macchia postcoloniale. Il saggio si chiude con una valutazione positiva del trattato, soprattutto per lo spazio aperto che esso inaugura: la valutazione rimane però condizionata all’esplicitazione della volontà di ambedue le parti — e soprattutto di quella italiana — a non rimanere nel generico ma a intraprendere la strada dello studio e del ricordo, e dell’ammissione, di una storia comunque conclusa.


  • Ken Ishida Crimini di guerra in Giappone e in Italia. Un approccio comparato pubblicato sul numero 251 di Italia contemporanea, giugno 2008 Abstract: Il saggio analizza la questione dei crimini di guerra compiuti dall’Italia e dal Giappone attraverso un approccio comparativo incentrato su tre fondamentali punti di osservazione. Il primo è la prospettiva di lungo periodo: Italia e Giappone, ultime arrivate tra le potenze imperialiste, sin dall’inizio del XX secolo, per annientare le resistenze locali e giungere a controllare rapidamente le loro colonie oltremare, non si peritarono di ricorrere a metodi simili, di un’efferatezza che raggiunse il massimo quando l’aspirazione del Giappone di avere la meglio rispetto alla supremazia bianca e l’affermazione dell’Italia di avere diritti uguali a quelli delle altre potenze imperiali ne accrebbero, nel corso degli anni trenta, l’aggressività. Il secondo riguarda il modo con cui gli intellettuali di entrambi i paesi, in quegli anni e anche durante la seconda guerra mondiale, si atteggiarono rispetto alle conseguenze dolorose sulle popolazioni locali delle guerre nelle colonie. Il disinteresse e l’ignoranza contraddistinsero in Italia persino quelli che si erano ricreduti sul fascismo durante la guerra di Spagna, mentre in Giappone, ancora nel dopoguerra, le posizioni anticolonialiste erano in minoranza. Il postulato della "superiorità sulle colonie" dominava la percezione degli intellettuali e quella delle popolazioni. Nel dopoguerra, molti italiani, convinti di essersi liberati da soli dal fascismo, dimenticarono con gran facilità quanto essi stessi avevano fatto contro altri popoli, mentre la consapevolezza (acutizzata dall’esperienza del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki) del popolo giapponese di essere lui stesso "vittima della guerra" spesso dominò il discorso postbellico. Il terzo, infine, concerne il fatto che nel secondo dopoguerra, sia in Italia che in Giappone i responsabili di crimini di guerra, sostanzialmente, non vennero perseguiti né si effettuarono epurazioni significative. L’autore esamina le ragioni, diverse in Giappone e in Italia, della mancanza di impegno al proposito delle élite politiche; come in entrambi i paesi la giustizia fosse amministrata dallo stesso personale che lo aveva fatto nei precedenti regimi; come gli Alleati, a loro volta detentori di colonie, siano stati acquiescenti; come fattori internazionali, quali la nascita dei movimenti anticoloniali e la politica della guerra fredda, abbiano favorito un rapido oblio.

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