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Una via intitolata a Giorgio Almirante?

Gen 27, 2020 | Radio Milano Europa

di Giulia Albanese

L’intitolazione delle vie e delle piazze è un ottimo termometro politico dell’Italia contemporanea, e mostra a che punto, dagli anni ’90, il tentativo di normalizzare il fascismo storico come elemento identitario della destra italiana sia un pezzo fondamentale della battaglia politica in corso. Il desiderio del Comune di Verona di intitolare una via a Giorgio Almirante è particolarmente rivelatrice perché la biografia di questo leader politico dimostra, con il suo percorso quanto intricate siano la storia del fascismo e la storia della repubblica e quanto difficile sia stato per l’Italia repubblicana costruire discontinuità forti rispetto al passato fascista.

Chi era Almirante? Storico segretario dell’MSI nel dopoguerra, durante il fascismo Almirante fu giornalista di regime, storico caporedattore del “Tevere”, uno dei giornali più razzisti e antisemiti del regime tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, collaboratore dell’ancora più connotato “La Difesa della Razza”. Negli anni della guerra civile si distinse per la sua attività anti-partigiana e di collaborazione con il nazismo, accusa dalla quale cercò di difendersi – senza successo – nelle aule del tribunale nel corso degli anni 1970. Prima di allora, negli anni ’40, sempre per collaborazionismo era stato condannato e aveva dovuto scontare una breve pena, a causa della successiva amnistia. Nel dopoguerra fondò poi i Fasci d’azione rivoluzionaria e successivamente, a fine 1946, partecipò alla costituzione del Movimento sociale italiano, e ne fu successivamente, e a più riprese, segretario nazionale. La sua attività politica nel dopoguerra fu connotata nel senso della continuità di discorsi, temi e stile rispetto al fascismo, e di disprezzo politicamente attivo nei confronti della democrazia e della repubblica italiana, che ne hanno fatto più volte ipotizzare il favoreggiamento e il coinvolgimento in atti terroristici legati al mondo dell’eversione nera. Ciò nonostante, esistono alcune decine di via Almirante nella penisola, soprattutto nell’Italia centro meridionale: un’epidemia che si è spinta dalla provincia di Cosenza, dove sembra sia stata intitolata la prima strada, alla Sicilia, al Lazio e al Veneto. Nel 2018 avevano provato a intitolargli una strada anche a Roma, e c’erano quasi riusciti, finché la Sindaca Raggi non ha fatto marcia indietro.

Che fare? È sufficiente la battaglia contro il singolo nome, il singolo monumento? Come si può evitare che si promuova la celebrazione di uomini che hanno avuto responsabilità politiche rilevanti durante il fascismo e che nella loro attività politica hanno avversato la democrazia e la Costituzione?

L’episodio dell’intitolazione della via ad Almirante ci dimostra che è opportuno interrogarsi nuovamente sul rapporto degli italiani con il loro passato e ci segnala come le politiche della memoria messe in atto nell’ultimo ventennio siano state per molti versi inefficaci (lo dice bene con un libro in uscita in questi giorni Valentina Pisanty, in parte anticipato nel pezzo da poco uscito in Novecento.org). Per altro, anche scegliendo di mettere al centro la memoria, questa enfasi sulla memoria e sul ricordo che ha caratterizzato le politiche nell’ultimo ventennio già nasceva, per molti versi, problematica e amputata: nel decreto istitutivo del Giorno della memoria non si faceva in nessun modo riferimento al fascismo e alle responsabilità italiane, come se nei discorsi e nelle pratiche il regime fascista non avesse prefigurato, costruito, alimentato quella marginalizzazione, espulsione e poi anche consegna degli ebrei all’eliminazione, che effettivamente avvenne. Intitolare poi una seconda giornata al ricordo, per ricordare l’italianità ferita, quasi come contraltare all’evidenza delle responsabilità fasciste e italiane (che nella prima legge non sono riconosciute), ha senz’altro contribuito a consolidare un’immagine del bravo italiano vittima delle ideologie del Novecento, che non ha riscontri nella storia contemporanea di questo paese, e che è segnalata, per altro, dall’assordante silenzio pubblico e memoriale sulla violenza del colonialismo fascista.

Certo, non possiamo essere certi che la consapevolezza del passato non sarebbe stata peggiore senza queste politiche, ma senz’altro potevamo sperare che esse avrebbero determinato un prima e un dopo, almeno rispetto al razzismo antisemita, e dobbiamo registrare – con preoccupazione – che non è così. Da un lato l’antisemitismo sembra essere l’ultimo baluardo difendibile di chi avversa questo ritorno di linguaggi e memorie fasciste, dall’altro è divenuto – per molti versi – l’argine da sfondare da parte della destra più radicale. Si moltiplicano così, anche in giornali autorevoli e nel discorso sulla contemporaneità, disgustosi e inequivoci riferimenti alla finanza o a banchieri ebrei, o visioni semplificate del confronto tra Vecchio e Nuovo Testamento a tutto danno del Vecchio, mentre ‘sul terreno’ è possibile usare la figura di Anna Frank per veicolare messaggi antisemiti fin dentro gli stadi. Il caso di Verona è particolarmente significativo perché si può, quasi contemporaneamente, dare la cittadinanza onoraria a Liliana Segre e intitolare una via ad Almirante, senza soluzione di continuità, come se fosse tutto uguale (e sulle ragioni del ruolo di Verona nella costruzione di un progetto della destra radicale bisognerebbe discutere, e non solo a livello locale, visto il ritorno e il confluire, negli ultimi anni, di progetti, discorsi e eventi, nella città veneta).

Insomma, questo episodio deve spingerci anche a interrogarci su come ripensare le politiche della memoria, se è possibile pensare a degli scarti rispetto a questa tipologia di conflitto memoriale, che è volta a ripetersi, e a trovare un modo per costruire un discorso pubblico sulla storia del nostro paese in una direzione diversa. Riconoscendo, per esempio, che il culto della memoria e la celebrazione delle vittime sono un terreno scivoloso, con cui bisogna confrontarsi, ma da cui prendere le distanze cercando di ragionare sul registro della storia, una storia che deve tra l’altro pensare l’Italia dentro un contesto, che è europeo e internazionale. E in questo senso, il lavoro degli istituti mi sembra possa dare un contributo in questo senso, studiando in che modo la memoria del fascismo storico, nelle strade, nelle piazze, per le vie di paesi e città è stata conservata, ma anche aprendo spazi di confronto sul modo in cui la memoria è stata costruita istituzionalmente a livello europeo.

Per il resto, è evidente che questa riflessione deve investire in pieno non solo chi opera nel campo della costruzione della memoria, della storia pubblica, o anche dell’insegnamento della storia, ma anche, e più pienamente e con maggiore efficacia, la politica. Una politica che sembra poco capace – e penso soprattutto all’Italia democratica e costituzionale – a pensare il suo ruolo in termini di politiche culturali e a costruire una piattaforma e un confronto con chi – intellettuali, associazioni, istituti culturali – può alimentare una riflessione anche critica, e auspicabilmente non di maniera, sul rapporto tra storia e memoria, passato e presente in questo paese. In questo contesto, bisogna registrare che, per molti versi, l’appuntamento del centenario del fascismo (cominciato nel 2019, ma che ci potrebbe interrogare per il prossimo venticinquennio) appare, al momento, un’occasione per il momento sostanzialmente perduta per ripensare il futuro dell’Italia finalmente in discontinuità con quella storia.