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Spagnoli nella Repubblica Dominicana. Un esilio di andata e ritorno di Ángel Herrerín López pubblicato su Italia Contemporanea n. 248 , settembre 2007

Terminata la guerra civile, un significativo numero di spagnoli lasciò l’Europa per cercare rifugio in America. In molti paesi l’esilio ebbe importanti ricadute sociali, economiche e culturali, ma non si trattò sempre di un esilio “dorato”. I circa 4.000 spagnoli che arrivarono a Santo Domingo (quantitativamente il secondo paese di accoglienza, seppur temporanea, dopo il Messico) non riuscirono a integrarsi, sopravvissero in condizioni difficili e spesso misere grazie ai sussidi dei comitati di sostegno repubblicani e nella quasi totalità abbandonarono infine il paese. Tale esito fu determinato da più fattori. La selezione alla partenza dei rifugiati venne fatta in base alle appartenenze e alle responsabilità politiche, senza tener conto del mercato del lavoro del paese di arrivo. La Repubblica Dominicana era infatti un paese relativamente arretrato, mentre gli esuli provenivano principalmente dal terziario. Così la maggioranza non seppe inserirsi in un’economia basata sul settore primario e il tentativo del governo di insediare i rifugiati in colonie agricole si rivelò un fallimento. Soltanto un’esigua minoranza trovò lavori ben remunerati nell’università o nell’amministrazione pubblica, anche grazie all’iniziativi di dominicani che seppero mettere a frutto il patrimonio intellettuale dei rifugiati per promuovere istituzioni culturali e migliorare la docenza universitaria, un risultato integrato dalla creazione di centri di insegnamento privato. La dittatura di Trujillo pose poi precisi limiti alle attività degli esuli, che subirono la repressione del regime. L’abbandono dell’isola non fu facile, in una fase in cui gli effetti della crisi mondiale spinsero anche paesi come il Messico a porre precisi vincoli all’immigrazione, mentre la redazione delle liste d’imbarco, le pressioni del regime di Trujillo e poi la guerra mondiale generarono altre difficoltà.


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