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Il popolo della libertà. Borghesia imprenditoriale e commercio negli anni del boom economico di Davide Baviello pubblicato su Italia Contemporanea n. 255 , giugno 2009

Dal dopoguerra a oggi l’Italia ha sempre presentato una proporzione d’imprenditori e lavoratori autonomi molto più alta degli altri paesi economicamente avanzati. Con l’avvento della repubblica, essi pretesero maggiore libertà dallo Stato e, allo stesso tempo, la protezione corporativa assicurata dalle leggi introdotte dal regime fascista, esprimendo una cultura liberista tanto incoerente quanto opportunistica. Tra gli anni cinquanta e sessanta sia gli industriali sia i commercianti si batterono affinché alla partecipazione dell’Italia alla Comunità europea non conseguisse l’ampliamento delle politiche sociali e l’estensione delle regole per garantire la libera concorrenza tra le aziende. Furono così bloccate molte riforme elaborate dai primi governi di centrosinistra, sventati tutti i progetti di liberalizzazione nel terziario, evitati provvedimenti efficaci per la tutela del consumatore e per una maggiore pressione fiscale sulle classi di reddito più elevate che non derivavano dal lavoro dipendente. Criteri liberisti vennero invece seguiti nei confronti di gran parte dei lavoratori dipendenti, attraverso la conferma della libertà di licenziamento nelle piccole aziende. Pure i commercianti — i quali dal dopoguerra si erano costantemente sentiti penalizzati rispetto alle altre categorie imprenditoriali — all’inizio degli anni sessanta migliorarono i loro rapporti con la Dc, che infatti con una serie di provvedimenti, come l’estensione del sistema pubblico di assistenza sanitaria e di previdenza, riuscì ad attenuare i timori del commercio tradizionale negli anni in cui si sentiva minacciato dall’apertura dei primi supermercati, dall’ingresso dei socialisti nel governo e dalla maggiore forza rivendicativa conquistata dal movimento operaio.


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