Ripensare il 27 gennaio Dal paradigma della vittima a quello del partigiano
di Alberto Gagliardo
In occasione dell’anniversario della Liberazione di Cesena (20 ottobre 1944) per l’Istituto Storico della Resistenza svolgo dei trekking urbani sui luoghi dell’oppressione fascista e della lotta partigiana. Per lo più guido studenti di classi terze di scuola secondaria di primo grado, che in quel momento dell’anno scolastico non hanno ancora studiato la Seconda guerra mondiale e pertanto gliene do una sommaria infarinatura, buona per collocare nel loro contesto più ampio gli episodi cittadini che vado loro illustrando e che studieranno mesi dopo, con maggiore dovizia, con i/le loro insegnanti.
Qualche anno fa mi è capitato di chiedere ai partecipanti se conoscessero la data della fine della guerra e/o della Liberazione dell’Italia: dopo averci pensato un po’su e individuato (con qualche fatica) l’anno, quanto al giorno molti hanno indicato (stavolta con maggiore sicurezza) … il 27 gennaio!
Da allora ripeto l’esperimento ogni volta che ne ho occasione, ricevendone sempre puntuale conferma e anche quest’anno la mia reazione, istintiva, è stata quella di rubricare la risposta nella categoria dei “bestiari” o cataloghi di strafalcioni che ad esempio i giornali realizzano a ridosso degli esami di maturità e lanciarmi in una pigra (beninteso interiore) geremiade sulla scuola, i giovani d’oggi, le famiglie, internet e via salmodiando.
Ma ritornato a meditare a mente più fredda su quell’errore, mi vado convincendo sempre più che esso non riguarda solo l’ambito della cronologia, ma investe una questione ben più profonda e meritevole di una riflessione articolata che non si può liquidare con un sospiro e la faccia atteggiata a un o tempora o mores, né confinare nell’aneddotica da rivendersi per le chiacchiere di una cena tra amici progressisti cólti e disincantati.
Piuttosto la domanda da porsi è: che cosa ha fatto sì che studenti di terza media confondano il 25 aprile col 27 gennaio? Anzi, meglio: rimuovano il 25 aprile per sostituirlo con il 27 gennaio.
Un cambio di paradigma
A me pare che quell’errore, più che di loro, ci parli di noi; ci dica che nel loro ancora fragile bagaglio culturale c’è la consapevolezza che quella data rappresenti sì una liberazione, ma che quella di Auschwitz abbia fagocitato nel loro “immaginario storico” quella dell’Italia dall’occupazione nazista e dalla dittatura fascista.
Certo ha contribuito a tale risultato la slavina di lezioni, conferenze, incontri, libri, film, spettacoli teatrali, trasmissioni televisive, pose di corone, pietre d’inciampo, treni della memoria a cui le e gli studenti sono annualmente (ritualmente) sottoposti.
Ma c’è di più, e innanzitutto a me pare che occorra tenere in primo piano la considerazione che oggi i valori della tolleranza, del rispetto, della pace, della cultura dei diritti (almeno a scuola) hanno giustamente e per fortuna prevalso nella società. Tutto ciò, però, ha reso assai difficile affrontare i temi della Resistenza e della Liberazione perché essi implicano il necessario confronto con quello della violenza partigiana, che si inserisce all’interno e all’apice di un conflitto, anche fratricida, ultraventennale.
Inizialmente, la forza della narrazione resistenziale ha avuto largo spazio nella memoria storica condivisa, e in qualche modo ha impedito il diffondersi della memoria della shoah e con essa della responsabilità nazionale (protetta dallo scudo di quella ribellione eroica); ma dalla fine degli anni Ottanta la figura del partigiano ha cominciato a subire un progressivo appannamento, sostituita nel dibattito pubblico da quella della vittima, poi da quella del giusto (prima solo quella del “giusto tra le nazioni”, ora quella più estensiva del “giusto dell’umanità”) che però è sempre disarmato.
Parallelamente a questa creazione di un nuovo spazio emotivo e rappresentativo, perfino la destra nostalgica si è andata appropriando del “paradigma vittimario” per creare una propria
“contronarrazione” (la quale ha trovato sponda anche nelle culture politiche più moderate, che ne hanno accolto e amplificato gli slogan), secondo un preciso calcolo, dacché “vittima” è oggi motfétiche di questa nostra età intrisa di pietismo moralmente indifferenziato e politicamente peloso. «La vittima – ha scritto Daniele Giglioli nel 2014 – è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime […] garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio».
Questa deliberata strategia di marketing politico ha avuto successo perché ha intercettato e volto a proprio vantaggio tale trasformazione, e dunque le (apparenti) ingenuità degli studenti sono l’inevitabile riflesso di questa mutazione culturale prodottasi nella società: la caduta della “pregiudiziale antifascista” – d’altronde si sa che la memoria collettiva, come quella personale, risponde ai bisogni del momento (storico e individuale).
Che fare?
Wlodek Goldkorn, in un intervento su «la Repubblica» del 13 dicembre 2017, ha osservato come delle 53 fotografie allegate dal generale delle SS Jürgen Stroop alla relazione Il quartiere ebraico di Varsavia non esiste più! con la quale documentava a Heinrich Himmler la repressione dell’insurrezione del ghetto di Varsavia e la sua “liquidazione” nella primavera del 1943, quella del bambino con le braccia alzate sia universalmente nota e sia diventata, come usa dire oggi, “iconica”, mentre non hanno avuto lo stesso destino altri scatti, tra i quali i due che ritraggono tre insorti, due donne e un uomo, catturati dai nazisti.
Eppure queste due immagini, sebbene come tutte le altre mettano in scena le vittime ritratte dal punto di vista dei carnefici (che ce le consegnano, con chiaro intento degradante e propagandistico, nel momento della resa e della sconfitta), non possono evitare di registrare, di quei tre resistenti, la indomita fierezza che emerge con particolare forza nella giovane di destra: Hasia Szylgold-Szpiro, nata a Varsavia nel 1900, commessa in un negozio di abbigliamento, sposata e madre di un figlio, in seguito assassinata dai nazisti nel ghetto.
In uno dei due scatti, infatti, lei, a differenza degli altri due, ha le mani abbassate e guarda dritto davanti a sé, senza piegare lo sguardo, mentre i soldati tedeschi, compreso quello che le punta il fucile contro, guardano dietro di loro, forse nel bunker dal quale i commilitoni stanno stanando altri resistenti. Tutto intorno macerie, fumo e fiamme.
Nell’altro, invece, quello dove la giovane ha anche lei, come i compagni, le mani alzate, più che il suo volto su cui spicca ancora lo stesso sguardo intenso e fiero, sono le espressioni di due giovani soldati tedeschi che li scortano a catturare l’attenzione di chi guarda, poiché sembra di scorgere nei loro sguardi, una sorta di attonito rispetto di fronte a quell’atteggiamento di sfida, quasi il presagio che contro tanta forza e determinazione non l’avranno mai vinta. Era il maggio del 1943.
Ecco, bisognerebbe ripartire proprio da qui per parlare (ai giovani ma non solo) del 27 gennaio, anche per sottrarlo a una sua stanca e perciò afona ritualità. Bisognerebbe, cioè, ritornare a parlare di più del 25 aprile come data di riscatto, come esempio di lotta vittoriosa nel nome di ideali giusti che per affermarsi contro la dittatura e la barbarie di fascismo e nazismo hanno dovuto, purtroppo e loro malgrado, a volte far ricorso alla violenza. Uscire, insomma, dal paradigma della vittima, per (ri)assumere quello del partigiano.