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L'occupazione italiana della Carinzia di Giulia Caccamo pubblicato su Italia Contemporanea n. 256-257 , settembre-dicembre 2009

Sin dal dicembre 1918, quando le clausole armistiziali assegnarono alle truppe italiane il compito di presidiare la linea di demarcazione provvisoria lungo il fronte della Brava, il governo di Roma definì immediatamente alcuni obiettivi volti a salvaguardare l'interesse nazionale, tra i quali innanzitutto quello di evitare che i principali collegamenti ferroviari, che garantivano le comunicazioni tra il porto di Trieste e l'Europa centrorientale, si venissero a trovare sotto la sovranità del neonato Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, da subito percepito come il principale ostacolo alla realizzazione degli ampliamenti territoriali previsti nel patto di Londra. Analogamente, l'avanzata delle truppe slave oltre la Drava, avrebbe privato l'Italia del proprio vantaggio strategico, rendendo la frontiera orientale meno sicura. Alla luce di queste considerazioni, il governo agì con una certa prudenza, non rinunciando, tuttavia, nel giugno del 1919, a occupare il tronco ferroviario Villaco-St. Veit, e dimostrando come il problema delle comunicazioni ferroviarie con l'Est costituisse la chiave di volta dell'atteggiamento italiano nella vertenza austrojugoslava. E altrettanto vero, nondimeno, che tale politica rientrava nel più ampio disegno volto a delegittimare le aspettative jugoslave ovunque queste si profilassero, e con tutti i mezzi possibili. Alla luce dei risultati conseguiti, in Carinzia come altrove, si evidenziano i limiti intrinseci della politica estera italiana del primo dopoguerra. Gli obiettivi di una grande potenza erano destinati a scontrarsi con i mezzi limitati di un paese per il quale il protrarsi dell'occupazione militare costituiva un onere economicamente e socialmente insostenibile, mentre il progressivo venir meno dell'appoggio internazionale poneva il rischio concreto dell'isolamento.


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